04/30/09

Mostra a Milano: “Las fatigas del querer”

Mostra promossa dalla PROVINCIA DI MILANO
in collaborazione con ADAC, Associazione diffusione Arte Cultura, di Modena
Comunicato stampa | Introduzione di Philippe Daverio | Intervento di Adriano Primo Baldi


Provincia di MilanoSPAZIO OBERDAN

“AMERICAS LATINAS. Las fatigas del querer”

a cura di Philippe Daverio
dal 21 maggio al 4 ottobre 2009

Spazio Oberdan, Viale Vittorio Veneto 2, Milano
orari: tutti i giorni 10-19.30, martedì e giovedì fino alle 22, chiuso il lunedì
biglietto: intero € 4,00, ridotto € 2,50; gruppi scolastici € 1,50
ingresso libero il primo martedì di ogni mese
catalogo edito da Gabriele Mazzotta


Inaugurazione: mercoledì 20 maggio, ore 18
vernice stampa ore 11.30


Comunicato stampa
L’arte contemporanea latinoamericana è una delle più interessanti realtà del panorama artistico internazionale: la difficile situazione politico-economica del Continente Sud-americano ha generato pulsioni e passioni artistiche estremamente dense. Per lo più si tratta di un’arte politica, di ribellione e di rivoluzione. Un’arte forte, come ancora rimane forte in America Latina la memoria della conquista e dell’evangelizzazione europea, e violenta come violente furono le sanguinarie usanze dei popoli indigeni precolombiani. Un’arte contemporanea tendenzialmente barocca, figlia di una mentalità complessa e di una cultura di osmosi: quella tra le tradizioni indigene e quelle occidentali-europee.
Durante il lavoro di ricerca sono emersi alcuni temi stabili attorno ai quali si coagulano energie molto precise di artisti con provenienze disparate. L’indagine sulla natura, l’attenzione alla mutazione dei popoli, il rapporto con la vita, con la morte, con il sangue. Essi si declinano dall’intellettualità alla passionalità, dall’istintività ad una ipotesi di razionalità, in modo ben diverso tra un luogo e l’altro del continente. La stessa evoluzione dei rapporti fra popoli preesistenti e immigrati di varie origini, europee e interamericane, la mescolanza e talvolta il conflitto tra religioni, cosmogonie e evangelizzazioni portano a nodi problematici paralleli ma non necessariamente similari.
Parlare di un’arte latinoamericana come di un’unità generale coerente e specifica appare però come una semplificazione. È difficile parlare di un’arte pan-latino-americana, se non forzando un po’ le cose: poco ha a che vedere il Cile con Panama, come quasi nulla ha a che fare il Brasile con il Messico o un argentino con un boliviano.
La mostra “Americas Latinas: Las fatigas del querer” infatti, come recita il titolo stesso (“Americhe Latine”), offre un panorama multiplo, diversificato e complesso, come è quello della realtà politica economica sociale e creativa del continente sudamericano. Non un’interpretazione univoca e definitiva, bensì spunti poetici per avvicinarsi alla comprensione di un paese così lontano e così vicino a noi. Una mostra che lascia aperto l’enigma e si limita solo ad essere una documentazione delle più significative correnti e qualità artistiche. Un ritratto variegato che, con la presenza sia di Maestri ormai defunti sia di artisti dell’ultima generazione, sarà una narrazione personale di Philippe Daverio sulla sua percezione dell’America Latina.

La mostra ha per contenuto le evoluzioni delle arti figurative dell’America Latina nella contemporaneità ed è basata su alcuni nuclei tematici “chiave” (sangue, morte, anima, natura, città), che saranno anche declinati e ripercorsi, allo Spazio Oberdan, attraverso contributi di autori e incontri rappresentativi della letteratura latino-americana.

Si passa dalla truculenta crudezza delle opere della cubana Tania Bruguera alla sottile spietatezza delle opere dell’argentina Nicola Costantino , senza trascurare le impressionanti visioni sanguinose della brasiliana Adriana Varejão. Dalle installazioni filamentose di Ernesto Neto, alle performance (fotografate) di Ana Mendieta, alle ispirazioni folli di Arthur Bispo do Rosario, fino a Beatriz Milhares, Vik Muniz, al fotografo guatemalteco Louis Gonzales Palma, a i giovani cubani Los Carpinteros, Ivan Capote, a l cileno Demian Schopf, al brasiliano Josè Rufino, per citarne alcuni. Non mancano artisti poco frequentati dal mercato.
L’artista argentina Alejandra Mettler nei mesi precedenti all’apertura della mostra ha lavorato con le donne indigene di Salta – una provincia al nord-est dell’Argentina, ai piedi delle Ande – per la produzione di un’enorme bandiera latinoamericana. L’opera rientra nel progetto comunitario Banderas Unidas, e per lo Spazio Oberdan è coordinata da Jean Blanchaert .

Un sezione video a cura di Paz A. Guevara e Elena Agudio viene programmata nella sala cinematografica dello Spazio Oberdan con video di artisti come Iván Navarro (Chile), Mika Rottenberg (Argentina), Martin Sastre (Uruguay), Nada Alvarado (Bolivia), Eduardo Srur (Brasile), Javier Tellez (Venezuela), Regina José Galindo (Guatemala), Ana Mendieta (Cuba), Antonio González Paucar (Perú), Rosangela Rennò (Brasile).


Informazioni:
Spazio Oberdan, tel. 02 774063.02/41; www.provincia.milano.it/cultura
Biglietteria (Ticket One), tel. 02 774063.00


Introduzione al catalogo, di Philippe Daverio, curatore della mostra

Al mio amico Giampiero Manfredini, detto il Manfro, che oggi non c’è più, ma che tantissimi anni fa mi offrì la prima chiave d’accesso ai misteri latinoamericani.

Questa mostra nasce da un sogno che so di condividere con molti altri provinciali della vecchia Europa: riuscire a capire che cosa accade veramente a sud del Rio Grande, al di là dei luoghi comuni assodati, oltre le immagini proposte dalla veloce globalizzazione dei viaggi, quelli che offrono comprensioni in compresse e lusinghe fragili come souvenirs di vacanze.

Dell’America a nord del Rio Grande sappiamo tutto senza capirci nulla: abbiamo la fortuna di ricevere direttamente da loro, dagli americani, un concentrato di come essi intendono apparire. Ce lo raccontano le catene televisive, la lingua dell’internet, i prodotti alimentari e le emozioni politiche. La più potente struttura commerciale che l’umanità abbia mai generato trasmette una identità che nessuna verifica concreta potrà mai controllare. Ci ingannano le arti visive delegate agli scaltri promotori d’un mercato fino a ieri brillante e oggi in severa revisione. Ci salva la letteratura che testimonia talvolta una realtà ben più complessa e coinvolgente.

Grande è la letteratura anglosassone oltreoceano. Grande forse ancora di più è la letteratura iberica oltreoceano. In cambio i paesi latini non esportano merci e domini planetari. Hanno influenzato più il nostro immaginario che la nostra realtà, più la nostra mente che i nostri elettrodomestici. Li troviamo poco sugli scaffali del frigorifero e meno ancora a occupare le memorie attive dei nostri portatili. Ma li sentiamo nei loro ritmi musicali e nelle loro evocazioni poetiche, nei sogni infranti della politica e del calcio. Parole come “Piano Condor” o “desaparecidos” o “rivoluzione sognata” si combinano con Borges, Neruda e Octavio Paz. E l’immaginario confonde. Rende maggiore la dissonanza fra Brasilia, la città d’un futuro non avvenuto, e Carnevale di Rio, lo svago del viaggio invernale low cost, di quanto non sia quella fra margarita e caipirinha. Gli yankees friggono ali di pollo e prime ribs nello stesso modo in decine di migliaia di ristorantini, eppure gli europei distinguono fra East Coast e West Coast, fra bostoniani e discendenti texani dagli allevatori di vacche. I latinos vengono compresi, colpa non solo la distanza, in un concetto riassuntivo sincretico. Per giunta i primi sono nella sostanza cocktail d’una lunghissima migrazione di nostri parenti lontani per antiche distanze europee e per declinazioni ben diverse della comune radice cristiana, mentre i secondi ci sarebbero ben più vicini per lingua e per matrice di fede, ma sono il risultato di mescole ben più complesse fra etnie preesistenti e razze importate.

L’America Latina, quella che porta il duplice nome del navigatore toscano associato per aggettivo alla piccola radice della romanità, viene da noi posta in una dimensione metafisica e trascendente.
Molti ne conoscono una parte, pochi la conoscono tutta. Tutti s’immaginano di sapere che cosa essa è. Eppure Città del Messico dista da Buenos Aires più che da Città del Vaticano.


Intervento di Adriano Primo Baldi, Presidente ADAC

L’Associazione Diffusione Arte Cultura (ADAC) collabora per la terza volta dal 2001 alla realizzazione di una grande mostra allo Spazio Oberdan della Provincia di Milano. Raggiungere una meta ambiziosa è difficile in tutti i campi. Ritornare, dopo averla raggiunta, è motivo di soddisfazione.

Ho avuto il privilegio di partecipare al primo incontro tra Philippe Daverio e il direttore Angelo Cappellini, quando entrambi s’interrogavano sull’eventualità di produrre un evento che non fosse soltanto una mostra d’arte, sia pure di prestigio. Volevano rappresentare, con una manifestazione di alto profilo, un momento della nostra vita sociale e della situazione artistica e culturale che, anche nel nostro paese, si va sempre più modificando in virtù di un dialogo aperto alle esperienze di tutti i popoli. Milano, come le altre città italiane, è oggi popolata di gente che proviene dai paesi latinoamericani. Indagare nella loro storia, comprenderne i riti, la cultura e l’arte, vuol dire essere un paese aperto, consapevole delle trasformazioni del mondo e delle necessità che a esse si accompagnano. Non possiamo interessarci soltanto delle questioni economiche o finanziarie che sovrintendono alle nostre relazioni. Anzi. Gli elementi d’identificazione collettiva dell’America Latina presentano aspetti economici, culturali e politici di particolare diversità.

L’Europa, nella seconda metà del XIX secolo, ha investito in quei paesi notevoli capitali in terre e miniere. In quel periodo le loro esportazioni verso i nostri paesi si incrementarono notevolmente: lana, cuoio, gomma, carne dall’Argentina, caffè dal Brasile, salnitro dal Perù, e molti altri prodotti ancora. La manodopera in America Latina era fatta di immigrati europei provenienti prevalentemente dal Mediterraneo.
L’immigrazione si concentrò in Brasile, Argentina e Uruguay. Dalla seconda metà del XIX secolo ai primi del XX vi arrivarono circa dieci milioni di persone, fra cui molti italiani, in gran parte veneti. È anche per questo che nella cultura latinoamericana vi sono segni caratterizzanti di una tradizione europea che si è trasmessa attraverso le migrazioni dando significato e arricchimento alle reciproche culture.

I paesi latinoamericani hanno alle spalle una tormentata storia di allineamento agli Stati Uniti. La loro subalternità al sistema finanziario mondiale ha creato, negli ultimi decenni del secolo scorso, una società di profonde disuguaglianze, con conseguenti tensioni politiche e sociali. Dalla fine degli anni Ottanta l’emancipazione e la trasformazione democratica di quelle società impongono anche a noi una maggiore conoscenza e un maggiore sforzo negli scambi culturali in quanto condizione di integrazione a tutti i livelli di migrazione e di cultura.

Una mostra dedicata alle culture dei paesi latinoamericani è importante quanto lo sarebbe un rilevante aiuto economico. Essa incide sulle coscienze nostre e su quelle dei paesi rappresentati.
È ben vero che vi sono nazioni povere che avrebbero bisogno di aiuti in quanto hanno carenze di carattere sociale, come il Perù. Ma io credo, come ha scritto recentemente Mario Vargas Llosa, già candidato alla Presidenza del Perù e sopravvissuto a ben due attentati, che “i musei sono necessari ai paesi quanto le scuole e gli ospedali. E anch’essi curano, non i corpi, ma le menti dalle nebbie dell’ignoranza, del pregiudizio, della superstizione e da tutte le malattie che impediscono agli esseri umani di comunicare tra loro e li esasperano e li spingono a uccidersi. Affinano la sensibilità, stimolano l’immaginazione, educano i sentimenti e risvegliano nelle persone uno spirito critico e autocritico. Progresso non vuol dire solo molte scuole, molti ospedali e molte strade. Nei paesi in cui ci sono molti musei la classe politica è, di solito, più presentabile che nei nostri e, lì, non è così frequente che i governanti dicano o facciano idiozie”.

Questa mostra è il compimento di un dovere culturale. Un omaggio alla forte presenza in Italia di latinoamericani e alla loro cultura.
Sono grato alla Provincia di Milano, all’Assessorato e ai dirigenti dello Spazio Oberdan per le importanti opportunità di collaborazione offerte alla mia associazione. Esprimo riconoscenza e gratitudine, per tutto, alle donne e agli uomini che ho frequentato in questi anni di impegno sereno e partecipato, perché lo suggeriva il nostro affetto. E ancora li ringrazio per aver dato ai nostri rapporti un contenuto di solidarietà umana e di amicizia che giova al nostro lavoro non meno che alle nostre istituzioni.